Sul sito Agenda Digitale.eu abbiamo letto un articolo molto interessante del sociologo Giovanni Boccia Artieri sul divario digitale “che è dentro di noi”. Il professore evidenzia i limiti, secondo lui gravissimi, dello sviluppo del digitale in Italia. E articola il suo ragionamento partendo dai dati di fatto e dalla “agenda digitale” appena varata dal governo e dal parlamento. La sua tesi è sostanzialmente questa: “Riflettere sullo sviluppo del digitale in Italia significa scontrarsi con un’inevitabile pars destruens che ha a che fare con una arretratezza del dibattito e con un divide sociale che è culturale prima che tecnico-strutturale.
Siamo d’accordo, e non vale solo per il digitale: a nostro parere i problemi essenziali della nostra comunità nazionale sono proprio “culturali”. Come se fosse successo qualcosa che ha “fermato” il pensiero della nazione nei confronti di qualsiasi settore, di qualsiasi campo della vita sociale, politica, economica, culturale. Basti pensare, per capire di cosa stiamo parlando, alla scuola, alla sanità, all’informazione, all’impresa. Solo l’impegno e la capacità dei singoli, di tanti singoli per fortuna, ci mantiene in vita.
Suggeriamo vivamente di leggere questo intervento, o comunque di metterlo da parte per leggerlo con attenzione appena possibile. Perché ci sembra che offra molti spunti di riflessione per chi, a vario titolo, opera nel settore delle nuove tecnologie. E per chi intende essere cittadino vivo, attivo, costruttore di futuro.
Sarebbe molto interessante conoscere il pensiero di chi segue questo nostro blog: condividete? in tutto o in parte? vi convince? corrisponde in qualche modo alle esperienze di lavoro personali? cosa si potrebbe aggiungere per arricchire la riflessione? cosa vi sembra sbagliato o inutile?
Non è una discussione da aprire e chiudere subito, ne parleremo nel tempo. Siamo oberati dal lavoro, è vero. Ma fermarsi ogni tanto per riflettere fa bene al nostro lavoro e alla nostra salute mentale.
Giovanni Boccia Artieri è professore ordinario presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino Carlo Bo, dove insegna “Sociologia dei new media e Internet Studies” e “Comunicazione pubblicitaria e linguaggi mediali”. Presidente della Laurea in Informazione media pubblicità e coordinatore del Dottorato di Ricerca in Sociologia della comunicazione e scienze dello spettacolo.
QUI è possibile seguire il suo blog e QUI conoscere meglio chi è e cosa fa.
Gentile redazione, in effetti da una veloce lettura dell’articolo, che meriterebbe ben altra attenzione da parte mia, si aprono, o meglio riemergono in me, considerazioni di cui sono sempre più convinto. E’ vero, il problema è culturale, già da decenni (mi riferisco da quando mi sono affacciato al mondo tecnologico dell’informatica, che all’inizio non si chiamava neanche così)…ma, da quello che riesco a capire, coninvolgendomi sempre più nella fruzione/alimentazione dei nuovi strumenti “sociali”, non avendo molte certezze in proposito, sono convinto, però, che tutto ciò che sta avvenendo è come un’onda gigantesca che si sta infrangendo su tutto ciò che incontra. La mia impressione, sempre più convinta, è che non abbiamo molte alternative…o tentiamo di salirci su, con mille difficoltà naturalmente, o saremo spazzati via in pochi istanti…ma il discorso sarebba troppo lungo. Grazie dell’ospitalità e spero di continuare a discutere con voi dell’argomento, a dir poco interessante e soprattutto strategico, secondo me, nel mondo di oggi.
Fabrizio Arati
Caro Fabrizio, condivido con te e con la redazione, il nostro amico Pino, che bisogna riflettere e discutere sul contenuto dell’articolo. L’ho letto una volta ma non basta anche perchè in alcuni passaggi andrebbe “tradotto” o “esplicitato” per favorire un dibattito partecipativo non limitato solamente all’interno della SVIC.
Peraltro, in un post precedente, si è parlato del “flop” dell’eGov: le cause sono da anni sempre le stesse: si pensa di innovare solo con gli strumenti e si trascura l’aspetto più importante e cioè il cambiamento “culturale”, termine molto abusato, che va dall’atteggiamento nei confronti del cambiamento alla proattività che significa agire dal basso senza aspettare direttive quasi sempre contestate e rifiutate.
Questo modo sbagliato di affrontare i problemi lo chiamo “approccio strumentale” e gli effetti sono tanto più gravi quando è molto diffuso nella classe dirigente del Paese, in particolare quella di governo.